Il grembiule nero  

di Oriana Pagliarone

15 giugno 1960

 

Aiutandosi con il lembo della cinta che stringeva il suo grembiule nero, Anna stava disegnando alla lavagna un cerchio: appoggiando il gessetto all’estremità della fettuccia di stoffa, facendo perno su di un punto della cinta ad una certa distanza dal gessetto, lo  fece ruotare intorno a quel punto lasciando una traccia perfettamente circolare.

Era l’ultima volta che disegnava un cerchio alla lavagna.

Una vecchia lavagna nera, con varie incrinature sui bordi. Una vecchia lavagna di una vecchia scuola.

Si voltò verso i suoi alunni, gli ultimi alunni della sua vita di insegnante.

Aveva solo due ore di lezione in quella classe. Dopo sarebbe cominciata per lei una nuova vita.

O forse finiva solo la sua vita di sempre.

Era stata un’insegnante per più di quarant'anni, e in quel Liceo aveva passato momenti intensi e belli, pieni di soddisfazioni. Esigente ma giusta, aveva ricevuto sempre il rispetto e la stima di alunni e colleghi. Non si era mai sposata. Aveva avuto delle simpatie, forse  un amore che negava anche a se stessa, ma il suo senso morale le aveva impedito di lanciare il cuore oltre l’ostacolo, come dicevano i fotoromanzi, che di nascosto e vergognandosi non poco, leggeva di tanto in tanto.

Lui, un collega, era sposato e come spesso capita negli ambienti di lavoro, la condivisione di tante cose inerenti la scuola li aveva avvicinati, ma sempre mantenendo le distanze nel rispetto reciproco dei ruoli e delle situazioni.

Mai una parola di troppo, mai un gesto fuori posto, e questo aveva fatto capire ad Anna che le sue fantasie dovevano essere incanalate in un’amicizia senza secondi fini e così era stato, per tutti quegli anni. Ma ora stava per andare in pensione e anche quel lieve legame si sarebbe sciolto.

Si volse verso la classe. Prima di continuare la spiegazione voleva guardare ancora una volta i suoi ragazzi: erano perplessi, non capivano che cosa stesse succedendo: “La professoressa non ha mai avuto esitazioni, perché non va avanti nella spiegazione?”, le sembrava quasi di sentire i loro commenti.

I banchi divisi in due “quartieri”, i maschi a destra, le femmine a sinistra con i loro bei grembiuli neri e i colletti bianchi. Anche lei portava sempre in classe il  grembiule nero, per un’insegnante di matematica era quasi indispensabile, con tutto quel gesso e polvere che si depositava tanto facilmente su vestiti e giacche. Aveva sempre tenuto molto al decoro. Voleva che le sue classi fossero sempre ordinate, e non si era mai dovuta lamentare per questo. La materia che insegnava era di per sé motivo di apprensione per i suoi alunni, che cercavano di assecondarla nell’aspetto esteriore anche se nel rendimento scolastico  erano spesso carenti.

Lei sapeva essere severa ma comprensiva: “La matematica è una disciplina ostica, bisogna essere esigenti, ma anche accontentarsi dei risultati raggiunti da questi poveri ragazzi”, pensava tra sé senza decidersi a finire la spiegazione.

«Ragazzi, vi stavo guardando perché volevo dirvi alcune cose.

Questo è l’ultimo giorno di scuola per voi, ma anche per me e non soltanto perché cominceranno le vacanze estive, ma perché da domani sarò in pensione.

Non ho detto nulla prima, perché non mi piacciono i saluti e gli addii, perciò ora finiamo la lezione e poi ci saluteremo come sempre.»

Gli alunni rimasero per qualche secondo interdetti, non si aspettavano quel discorso, ma non ebbero il coraggio di rispondere niente a quelle parole che non ammettevano repliche.

Lei si girò verso la lavagna e completò la dimostrazione.

Stava riponendo il gesso e il cassino nella scatolina che si portava sempre dietro, quando il bidello aprì la porta come sempre a fine giornata: «Finis!», la sua voce profonda risuonò nel silenzio dell’aula.

«Grazie, don Michele.» rispose la professoressa, poi  volgendosi verso gli alunni che lentamente e in silenzio si erano alzati in piedi, guardandoli negli occhi, ad uno ad uno :

«L’anno prossimo avrete un’altra insegnante, fatemi fare bella figura, mi raccomando!», e con queste parole si incamminò verso l’uscita.

Non era insensibile come voleva far credere, era emozionata e commossa, quel saluto silenzioso era stato più eloquente di tante parole, lei lo sapeva, ma aveva preferito non lasciarsi travolgere dal sentimento.

Era fatta così, poco incline alle affettuosità.

Ora c’era un’ ultima cosa da affrontare, la piccola festicciola che si sarebbe tenuta in sala professori per il suo pensionamento.

Si avviò controvoglia verso la stanza dove sapeva si sarebbe svolto un piccolo rinfresco.

Davanti alla sala si era già formato un capannello di professori. Erano tutti felici di terminare in modo allegro la fine dell’anno scolastico e di salutare la professoressa di matematica del corso A che finalmente andava in pensione. Le leve più giovani erano un po’ in soggezione di fronte a lei, così austera, severa anche nell’abbigliamento: sempre una gonna a pieghe, un golfino poggiato sulle spalle, anche in primavera, i capelli, diventati sempre più grigi negli anni, tirati in uno chignon basso sulla nuca.

I colleghi le si fecero incontro ed entrarono alla spicciolata nella sala.

Prese la parola il Preside per il saluto di rito, i ringraziamenti per il servizio prestato e tutte le solite cose che si dicono in queste circostanze.

Lei sorrideva imbarazzata, sperando che tutto finisse al più presto.

Poi il professore di latino e greco, proprio quello del suo corso, volle prendere la parola:

«Cara Anna, sei stata per tanti anni mia collega nel famoso corso A che ha licenziato tanti brillanti studenti, ma non ho preso la parola per elogiare i tuoi successi in campo didattico.

Volevo invece svelare a te e a tutto il corpo docente, forse a tempo scaduto, quello che non ho mai avuto il coraggio di dirti in tanti anni. Ora che sono vedovo, e che è passato tanto tempo, sono sicuro di non arrecare offesa a nessuno con queste mie parole.

Ti ricordi, quando fresca di nomina ti presentasti nel nostro Liceo?

Eri giovane, allora, e piena di vita. Anche se infagottata nel tuo grembiule nero,  eri bellissima. Bene,  quel giorno mi sono innamorato di te. Non l’ho detto  mai a nessuno e forse neanche a me stesso.

Ma oggi, solo oggi, ho il coraggio di dirtelo. Tu non ti sei mai accorta di niente, hai scambiato i miei sentimenti per quell’amicizia tra colleghi che si crea normalmente in una situazione del genere. D’altra parte la tua onestà non ti avrebbe permesso di interpretare in modo diverso il mio sentimento. Oggi, che finalmente mi sento libero di rivelarti quello che ho provato in tutti questi anni, posso solo augurarti una vita felice, ora che non avrai più l’assillo della scuola» e le scoccò due baci sulle guance.

L’applauso fragoroso dei colleghi accolse quelle parole e  sciolse l’imbarazzo della confessione. Chi rideva apertamente, chi sorrideva con simpatia, chi si asciugava una lacrima.

Anna rimase senza fiato, poi si rianimò:« Rosario, hai fatto passare quarant'anni per dirmi una cosa del genere, non potevi parlare prima? Allora ero giovane e carina, ora sono una vecchia professoressa in pensione.», disse, cercando di essere spiritosa e di stare a quello che sembrava più uno scherzo che una verità svelata. Ma il suo cuore ebbe un sobbalzo.

Cercò di dissimulare la gioia che provava in quel momento, un rossore le imporporò le guance. Si sentiva come sospesa.

«Io vedo sempre quella bella ragazza rigorosa ma  piena di entusiasmo!», Rosario era rosso in volto, ma il Preside liberò tutti dall’imbarazzo di quella scena, e con poco garbo: « Bene, bene, e, dopo queste confessioni, possiamo dirigerci verso il buffet, lo sapete che non possiamo fare troppo tardi, perché i bidelli devono chiudere la scuola!»

Si avviarono tutti verso il tavolo in fondo alla sala con le bibite e i pasticcini in bella mostra.

Rosario prese due bicchieri di spumante, ne offrì uno ad Anna, per un brindisi.

Negli occhi di entrambi una dolce, inaspettata promessa.