Epilogo

 

di Oriana Pagliarone

 

 

Lo sapevo che non dovevo fare una passeggiata così lunga. Mi stanco troppo facilmente, ormai.

Ora mi siedo su questa panchina, le forze mi torneranno.

Certo, certo, solo un po’ di riposo. Il battito del cuore accelerato, il respiro affannoso… ma ora tutto tornerà a posto.

Vengo spesso qui: uno di quei giardinetti dove le mamme portano i bambini a prendere un poco d’aria, dopo la scuola.

Mi piace questo posto.

Un tiepido raggio di sole mi sfiora le mani: come sono rovinate le mie mani! Le avevo così belle: ora sono piene di rughe e gonfie di vene sporgenti, ruvide al tatto anche se mi ostino con creme idratanti, ma non servono a niente, solo un palliativo momentaneo, come se la pelle avesse perso la sua consistenza naturale, sostituita da una carta abrasiva.

Il mio sguardo è catturato da due grandi occhi che mi osservano con curiosità: «Chi sei? Non ti ho mai vista qui, eppure vengo tutti i giorni, mi piace pattinare e qui c’è una bella pista, dove posso fare i miei esercizi. Sono brava, sai, faccio l’angelo in avanti, ma andare all’indietro è ancora troppo difficile.»

É una bella bambina, paffutella e solare, ha le ginocchia sbucciate, segni evidenti di un accanimento nel gioco, che prende molto seriamente, come tutti i bambini, del resto.

Ha qualcosa di familiare, forse il sorriso, gli occhi con quelle pagliuzze dorate. Non so.

«Ma non ti senti bene? Sei molto pallida, ora chiamo la mia mamma, vedrai che ti aiuterà! Mamma, vieni! C’è una vecchia signora che non si sente bene!»

Non faccio in tempo a fermarla, la bambina ha già chiamato la mamma che si sta affrettando verso di noi.

Chiudo gli occhi per un momento, non riesco a controllare il cuore impazzito. Appena li riapro vedo un volto piegato su di me, riesco a notare solo gli occhi, dello stesso colore  di quelli della bambina. Occhi attenti e preoccupati, in grado, forse, di riconoscere  i segni di un malore severo.

È così che si dice di una diagnosi infausta: severa, come una maestra d’altri tempi, severa con alunni indisciplinati: ma qui d’indisciplinato c’è solo il battito del mio cuore che non vuole tornare normale.

«Ma lei non sta bene, signora! Ha bisogno di stendersi un momento! Guardi che noi abitiamo proprio qui di fronte, solo due passi, venga, si faccia aiutare! Magari si riposa un po’ e poi la riaccompagno a casa. Non si preoccupi, nessun fastidio!», come se leggesse i deboli tentativi di sottrarmi a quella gentilezza inconsueta, a cui non sono più abituata.

Non è vero che noi anziani siamo sempre trattati gentilmente, a volte siamo a stento sopportati, spesso sentiamo, tangibile, l’insofferenza per le nostre incertezze, titubanze, amnesie, stupori, assenze. Lo so, non sarò certo io a dover ricordare quanto sia laida la vecchiaia. Laida! Non brutta, penosa, triste! No! Proprio laida, perché avvilisce lo spirito prima ancora del corpo, e quando non c’è più dignità, non c’è più rispetto, neanche per se stessi, allora è veramente finita.

Ma oggi è diverso. La donna è premurosa ed io non ho la forza di ribellarmi a tutta questa gentilezza istintiva che sento venirle dal cuore. Mi lascio trascinare in casa, sento di potermi fidare di lei, avverto un legame sottile, ma tenace.

La bimba ci segue, sorridendo.

La casa è in penombra, una poltrona sembra aspettarmi. Mi siedo, stendo le gambe, un approdo sicuro, dopo un mare in tempesta. Anche i battiti del cuore si stanno calmando.

«Ora le preparo una bella tisana rinfrescante! Oriana, tienile compagnia finché non torno! Ma non la stancare con le tue chiacchiere, hai capito?»

«Sì, mamma, non ti preoccupare, sarò buonissima.»

La bambina mi sorride: «Hai visto come assomiglio alla mia mamma? Da grande sarò proprio come lei. É bella, vero? Ma anche tu sei bella, una bella vecchietta!  Sai, potresti essere la mia nonna, io non l’ho conosciuta. Hai i miei stessi occhi, te ne sei accorta?»

Mi porge uno specchio ed io mi guardo e, forse per la stanchezza o non so cosa, la mia immagine si sovrappone a quella della bambina e non riesco a distinguere i contorni del viso, vedo solo due occhi ridenti. Io, lei…

Mi volto: la mamma della bimba sta tornando verso di me con una tazza fumante in mano. Si avvicina e il suo volto ora è davanti a me, i suoi occhi… i suoi occhi... Ecco cosa c’era di familiare in lei… la donna… la bambina… sono io.

Ci abbracciamo con calma, non c’è fretta. Non è un addio…